Stringimi

È quell’abbraccio, quello consapevole. È lui il big bang della tua vita. Le sue mani non ce la fanno a incontrarsi, ma la sua forza è lì, nei gomiti. Quell’abbraccio è la prima cosa che ricordi. Prima non c’era l’acqua né il vento. Non c’era la terra né il fuoco. Non c’eri tu. C’era il pensiero di te. Di qualcosa che avresti dovuto essere, ma che ti sfuggiva. E ora, che ti sembra di poterlo toccare, sai già che non ti appartiene. La tua forma è cambiata, ha nuove regole e non sei tu a dettarle. Ma non hai paura perché non è il controllo la tua forza. La tua forza permea la tua pelle in quell’abbraccio, ti supera, volteggia e ti si scaglia di nuovo addosso come un’onda secca. E poi si infila in ogni parte di te, di ciò che di te resta. Lava via il veleno che hai portato dentro. Lascia in te il dolce sapore della vita.

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In tutta coscienza

«Sei in ritardo!». La voce di mamma è un tuono. Di nuovo.
«Non penserai mica di correre come una pazza adesso, vero?».
Mi precipito fuori ancor prima che finisca la frase. La fermata dell’autobus è vicina, vedo in lontananza il puntino giallo. Devo fare in fretta. Scendo gli scalini a piè pari, corro lungo il marciapiede.
«Buongiorno Sofia, sempre di corsa eh?». È Silvia, mi saluta dall’uscio di casa.
«Forza dell’abitudine», rispondo.
Il marciapiede finisce, attraverso sulle strisce senza nemmeno guardare.
«Incosciente!», mi urla dal finestrino Angelo mentre inchioda. Mi volto in corsa, gli chiedo scusa. Di nuovo lo sguardo sulla strada, appena in tempo per evitare Gigi in bici.
«Incosciente!», grido.
Mi infilo al mercato. É ancora presto, ma il fruttivendolo è già lì che dà i resti. Troppa gente, passo di lato. Curva secca, zig zag tra le cassette di fragole. Uno sguardo al banco: verde, rosso, giallo. Manca il blu, penso.
E in un attimo, eccolo lì. Ma non è proprio blu, veramente è azzurro, striato di bianco soffice. E non è accanto al giallo di prima. Mi sento intorpidita, sarà per la corsa. Strizzo gli occhi, guardo meglio: il cielo! Sento piccoli sassolini sotto i palmi e qualcosa sulla faccia. È una mano. Poi due occhi, un naso e una bocca che si muove. Strana questa bancarella. E poi una voce: Incosciente, mi pare di sentire.
«È cosciente», dice la bocca mentre si volta.
È Angelo, mi guarda e sorride: «Direttamente dal pero su una buccia di banana, solamente tu!».

Non un tono, né un taglio, neppure una misura.

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Un anno è un lasso di tempo terribilmente lungo di per sé, figuriamoci se pensiamo che sia quanto può passare tra un post e un altro. E così invece è stato. Già, un anno è passato dai primi e ultimi post. Inutile trovare scuse del tipo “c’ho avuto da fa’” perché chi di noi non è oberato da lavoro, famiglia, pensieri o scimmie urlatrici? Tanto per tenervi aggiornati, nel mio caso hanno prevalso le ultime.

Ho iniziato questo diario non avendo bene chiaro in testa cosa ne avrei fatto. Le mie buone intenzioni mi spingevano a farne un blog professionale, di quelli in cui scrivere tante cose intelligenti su come si produce un testo, sul perché lo si fa o magari sul fatto che chi lo fa non è pagato abbastanza. Ma ora, a distanza di un anno, ho deciso che no, un approccio troppo serio al mio lavoro, almeno qui, con me non avrebbe funzionato. E quindi? Perché mai qualcuno dovrebbe leggere qualcun altro che non sa nemmeno cosa vuole scrivere. Ancora non lo so, ma quello che so è che riempirò questo blog di parole. Sì, parole. Perché fate quella faccia? Ah, tutti i blog sono fatti di parole. Bella obiezione. Ma io lo riempirò con le mie parole, che poi sono quelle con cui mi pago da vivere (già in questa frase di materiale ce ne sarebbe: “pago” è la cosiddetta “parola grossa” e non perché fatta da lettere panciute). Quindi, da un certo punto di vista, non tradirò del tutto la mia idea di partenza e forse ne uscirà comunque un blog “professionale”. Ma un pochino meno incravattato. Insomma, eviterò di darmi un tono, un taglio e pure una misura.